Hipster
Per capire cos'è la musica hipster dobbiamo innanzitutto ripercorrere la storia di questo "movimento". La cultura hipster è una sottocultura contemporanea spesso associata alla vita bohémien cittadina. Musicalmente fa riferimento alla scena indie e alternative, mentre culturalmente si avvicina a espressioni eclettiche, alla moda vintage, a idee politiche progressiste e all’alimentazione biologica o vegana.
Il concetto moderno di hipster nacque negli anni ’90, diretto discendente della cultura hipster originale risalente agli anni ’40. In questa epoca, la cosiddetta jazz age, l’aggettivo hip definisce i fan di tale scena musicale emergente. Come in molti termini americani, hip divenne hipster ed entrò nel linguaggio corrente. All’inizio queste persone erano solitamente giovani borghesi bianchi che cercavano di emulare i loro afroamericani idoli del jazz. Tra questo gruppo di novelli e originali hipster troviamo grandi musicisti come Benny Goodman, Al Cohn, Gerry Mulligan, Stan Getz, Mezz Mezzrow, Barney Kessel, Doc Pomus, Bing Crosby, Frank Sinatra, Chet Baker e Gene Krupa.
Ad oggi, la scena musicale hipster risulta oltremodo differente: possiamo rintracciare un revival per la scena post punk, noise e no wave, superando in alcuni casi i limiti dei classici generi musicali fino a giungere a forme particolari, come l’hipster rap, un genere che vede la miscela di musica rap e moda hipster. Gli esponenti di questo genere sono spesso criticati per la sfumatura poseur che si danno, nel modo di voler fare rap senza le controindicazioni del ghetto.
La cultura hipster originale si diffuse rapidamente, e già dopo la Seconda Guerra Mondiale i grandi autori della Beat Generation, come Kerouak e Ginsberg, descrivevano come questi giovani autostoppisti carichi di una nuova spiritualità vagassero per le strade d’America. Nel saggio The White Negro, Norman Mailer li descrive come giovani esistenzialisti che vivono circondati dalla consapevolezza della morte, dalla ineludibile conformità sociale da cui tentano di scappare per affrontare il loro personale percorso alla ricerca della propria ribelle identità.
Nel nuovo millennio il concetto assume diverse connotazioni, sia positive sia negative; secondo il libro HipsterMattic del 2011 la scena hipster sarebbe la risposta rivoluzionaria alla mollezza culturale di inizio millennio, quando la scena era dominata dai reality, dalla musica dance e dal gossip. Secondo il testo, le vecchie mode, marche e i vecchi generi musicali sono tornati a essere nuovi. Il vintage è diventato moda, il maglione della nonna e gli occhiali di Buddy Holly hanno trasformato il nerd in qualcosa di tendenza. I novelli hipster desiderano vivere in modo sostenibile, mangiare biologico ed essere riconosciuti come qualcosa di diverso, scavarsi una nicchia culturale propria. Secondo i dettami di questo movimento, lo stile non è qualcosa che si può comprare al centro commerciale, ma piuttosto nei negozi dell’usato o addirittura può essere fatto a mano.
Nonostante la carica rivoluzionaria del genere, alcuni studi e articoli sostanziano la posizione elitaria borghese del movimento, nella sua formula poseur e grottesca. Tra queste opere troviamo il libro The Hipster Handbook pubblicato nel 2003. Il testo, una guida satirica, un manuale per il perfetto hipster, in toni scanzonati descrive alcune caratteristiche tipiche del giovane "radical chic": il taglio di capelli alla Beatles, le borse retrò, l’immancabile smartphone e la sigaretta in mano, la bici a scatto fisso, fare a maglia e cucire, il veganesimo, gli alveari urbani, la tassidermia, il borsalino, il maglione della nonna, i pantaloncini di jeans, le All-Stars, i Wayfarers di Bob Dylan e soprattutto l’ideale chic progressivo in politica che spesso ne tradisce l’estrazione borghese benestante.
In questa ottica, il termine assume una connotazione dispregiativa, che tende a sottolineare la volubilità e la pretenziosità di alcuni membri di questa cultura contemporanea. Qualche critico del genere vede questa cultura come un superamento stanco del postmodernismo, che perde la propria forza espressiva e si abbandona alla sola estetica. Tale abbandono avrebbe portato a un impoverimento del genere, che ha prodotto icone modaiole su larga scala che soffocano l’originale idea alternativa in arte e in musica. Il ruolo dell’hipster risulterebbe così quello di appropriarsi di nuove forme culturali e traghettarle nel mainstream in forma commerciale, rendendo fetish gli elementi autentici delle culture post-Seconda Guerra Mondiale, come i Beat, gli hippie, il punk e il grunge; in questo modo opererebbe un collage, un rigurgito di queste culture passate, svuotandole del loro significato e lasciandone solo un’ombra vagamente demodé e cool. Questa identità di gruppo senza significato si chiude ulteriormente in se stessa nella pratica dell’aggressione passiva dello snark, portmanteau delle parole snide (malizioso, maligno, derisorio) e remark (osservazione, commento).
Il collage di identità, fatto spesso di moda, apparenza, e uno stile vago e indefinito, rende difficile la definizione di hipster per chiunque sia al di fuori di questo circolo autoproclamanto e altamente selettivo. Le persone che aderiscono a questa cultura evitano etichettature anche se si vestono tutti allo stesso modo e si comportano tutti allo stesso modo per conformarsi sia al loro non conformismo sia a un look vintage iconico e accuratamente trasandato.
Secondo alcuni studiosi esistono tre strategie che l’hipster utilizza per dissociarsi da questa etichetta: la discriminazione estetica, la demarcazione simbolica, e il proclama di sovranità. Queste strategie, sostenute dalla loro autodefinizione di cultura indie, permette all’hipster di difendere i propri gusti e le proprie idee indie dall’essere associati con la mitologia hipster. Ciò spiega come hipster conclamati e ostentosi neghino l’allucinante evidenza: essere hipster svaluterebbe le loro scelte esistenziali, i loro gusti e i loro interessi; devono pertanto distinguersi socialmente da questa categoria culturale e difendersi dalla svalutazione. Per riuscire a negare di essere un hipster, anche se aspetto e comportamenti ne tradiscono l’appartenenza, questi individui demitizzano le loro pratiche di consumo attraverso la retorica e altre pratiche che solo simbolicamente li allontanano dal marchio di hipster. Questo, a prescindere dalle radici storiche del movimento, sembra essere una operazione mediatica operata a monte per approfittare di un movimento alternativo nascente per creare un mito contemporaneo commerciale e commercializzabile.
Ma chi erano mai questi hipster?
Nella loro forma più remota li avreste definiti bohemien ma, dismessi i panni da poeta maledetto e posato il bicchiere di assenzio, i barba moderni affondano le loro radici nella cultura degli anni ‘40. A quel tempo, hipster era chi ascoltava musica jazz e bepop: normalmente ragazzi 'bianchi', della classe media, che vagheggiavano lo stile di vita dei jazzisti afroamericani. Dopo la seconda guerra mondiale l’identità di questo uomo culturale si evolve e la descrive bene Norman Mailer nel saggio ‘Il bianco negro’, quando parla di giovani esistenzialisti, turbati tanto dalla guerra fredda quanto dal conformismo sociale, che decidevano di ‘divorziare dalla società, vivere senza radici e intraprendere un misterioso viaggio negli eversivi imperativi dell'io’.
Sovrastati dal movimento hippie, di certo più radicale, restano in ombra per qualche decennio per tornare a parlare dei modernitos solo negli anni ‘10 del nuovo millennio, quando una nuova ondata di conformismo sembra ormai pervadere ogni aspetto della realtà.
Chi è l’anticonformista moderno? Lo riconoscerete facilmente innanzitutto dall’abbigliamento: ornati da lunghe barbe e originali baffi, se uomini, da acconciature a 'cipolla' se donne, ma comunque con grandi occhiali, pantaloni skinny, cardigan infeltriti ed un certo gusto per qualsiasi accessorio retrò. Gira spesso a piedi o in bici e, se proprio deve prendersi un’auto, guida auto vecchie, non di certo l’ultimo modello del mercato.
Il radical chic moderno mangia cibi biologici e slow food, acquista prodotti artigianali o di seconda mano, ama l’ambiente e gli stili di vita alternativi, ma soprattutto condivide con la sua versione anni ‘40 l’ascolto di un tipo ben preciso di musica: non più – o meglio, non solo – jazz e simili, ma una serie di cantanti o gruppi che crede di conoscere lui e lui soltanto (e nella maggior parte dei casi è vero), normalmente dal mondo indie o alternativo. Ama tuttavia spaziare tra vari generi, dalla musica elettronica commerciale al rock. Se proprio devono scegliere tra il mainstream, troverete nelle loro playlist i Doors, i R.E.M., i Ramones, Bob Dylan e qualche altro grande classico come i Pink Floyd o Simon And Garfunkel. E no, non potrà passarvi un auricolare: la musica hipster si ascolta dalle cuffie. Enormi cuffie.
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